Orson Welles –Touch of Evil
in collaborazione con il MUSEO NAZIONALE DEL CINEMA DI TORINO
a cura di Paolo Mereghetti, Giulia Carluccio, Giampiero Frasca
“Da quando Orson Welles è scomparso – a settant’anni, il 10 ottobre 1985 – ci si è resi conto, in modo via via più chiaro, che quanto ci ha lasciato – un cospicuo materiale di innumerevoli film, sceneggiature, progetti, sparsi in paesi ed epoche diverse, magari abbandonati quando le riprese erano già iniziate o in avanzata fase di preparazione – è un’eredità molto più ampia, e incomparabilmente più ricca di potenziali sorprese, di quanto chiunque fra noi avesse sospettato”. Con un’intuizione critica che è anche accorata dichiarazione di grandezza, il critico americano Jonathanan Rosenbaum ha sottolineato così l’importanza continuamente riconfermata del regista di Citizen Kane e nello stesso tempo l’inadeguatezza dei tanti discorsi che cercano di incasellarlo dentro schemi troppo rigidi e stretti.
E per una volta non si tratta solo di una dichiarazione di fede da parte di qualche irriducibile fan. Il debito che la storia del cinema deve a Welles non è solo quello di una passione contagiosa e dirompente (“appartengo a una generazione di cineasti che hanno deciso di fare film avendo visto Citizen Kane”, ha detto per tutti François Truffaut) ma è anche, se non soprattutto, l’esempio rigoroso e ancora attuale di un autore che ha saputo misurarsi con l’universo dei mass media, che è riuscito a lottare (anche se non necessariamente a vincere) contro le sirene della fama e del potere, che ha riflettuto con lucidità sul ruolo dell’intellettuale.
Ma proprio questa grandezza ha spesso rischiato di trasformarsi nel primo degli ostacoli al suo apprezzamento. Come si può parlare di un regista così ingombrante come Welles, che una lettura tanto accreditata quanto fuorviante ha spesso descritto come “autodistruttivo” e “predestinato alla sconfitta”? Come si può affrontare un’opera che conta solo dodici film portati a termine in più di trent’anni di carriera, di cui almeno due “ufficialmente” massacrati dalla produzione (The Magnificent Ambersons e Touch of Evil), più uno senza nemmeno il nome nei titoli (Journey into Fear)? Che cosa si può dire di un’opera che conta altri quattro film incompiuti: It’s All True (arrivato sugli schermi mutilato e dieci anni dopo la morte di Welles, per l’ostinazione di un gruppo di cinefili franco-statunitensi), Don Quixote (cui la sua ultima compagna, Oja Kodar, ha cercato di ridare vita non senza difficoltà e polemiche) e due (The Deep e The Other Side of the Wind) che complicati sistemi di coproduzione sembrano condannare in eterno a rimanere in qualche cellario frigorifero? Come è possibile non restare schiacciati da tutto quello che è stato detto su Welles ed evitare di utilizzarlo come paravento o ariete per le proprie idee?
A ingarbugliare le piste ha contribuito, poi, lo stesso Welles, che aveva cominciato e avrebbe voluto finire la propria carriera con due film simili nel soggetto e praticamente identici nella struttura narrativa: dando spazio a più voci, mettendo a confronto idee e ipotesi diverse, utilizzando percorsi a volte antitetici, come era la costruzione di Citizen Kane (che cercava di ricostruire la contraddittoria vita del magnate della stampa Charles Foster Kane) e come avrebbe dovuto essere la struttura di The Other Side of the Wind, riflessione necessariamente venata di autobiografismo sugli ultimi giorni di vita del regista hollywoodiano Jake Hannaford. Quasi a ribadire che non esiste una sola verità, una sola interpretazione, una sola strada maestra: non è stato così per i suoi film, non può necessariamente esserlo nemmeno per la sua carriera. Il che non vuol dire che la sua vita e la sua opera non si possano affrontare e analizzare, ma solo tenere ben presente che ambiguità e contraddizioni dovranno a fortiori essere costanti compagni di viaggio.
(Paolo Mereghetti)
“Ecco: io sono un pendolare. Vado dove c’è del lavoro, come un raccoglitore di frutta. Tutto ciò di cui ho bisogno sono un sorriso d’incoraggiamento ed una proposta, ed arrivo subito, col primo aereo”. (Orson Welles)